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Badante in Italia, in Moldavia madre di Moglia PDF Stampa E-mail
Scritto da Darii Sined   
Sabato 03 Aprile 2010 17:16
Ha 42 anni, Natasha. L’ho conosciuta a casa d’una vecchia zia. Fa la badante. Una delle 350 mila donne moldave che hanno deciso di lasciare la loro famiglia laggiù per cercare un po’ di fortuna all’estero e così sbarcare il lunario in qualche modo, sopravvivere alla brutta storia d’un impero collassato dopo un’infausta decadenza. Bisognava pur riuscire a far studiare i due figli, amati figli, amatissimi!
 
Natasha veniva dalla campagna settentrionale del Paese, non distante da Chişinau, la capitale: in Moldova tutto è vicino. Si coltivano un po’ di barbabietole, un po’ d’uva, un po’ di qualcos’altro. Un po’ di tutto e un po’ di niente, senz’altro lavoro, cioè la fame o poco ci manca. A 17 anni s’era sposata con Anton, un pezzo d’uomo, un duro, uno che non usava parole dolci, non era cosa conveniente per un uomo. L’aveva messa incinta subito dopo le nozze, quasi brutalmente. Così come brutale le era subito apparsa la suocera, una megera non per natura ma perché bastonata dalle intemperie e dalle burrasche d’una vita di miseria “alla sovietica”. Miseria di beni materiali ma soprattutto spirituali.
 
Studiava e lavorava, Natasha, per mantenere il suo uomo nullafacente e il piccolo fringuello che aveva messo al mondo nelle lacrime sette mesi dopo il matrimonio. Il suo Anton già la tradiva con altre donne e, soprattutto, con altre bottiglie. La pestava, la batteva. L’unica cosa che Natasha chiedeva alla suocera era di dare un’occhiata al suo piccolo: la mattina lo lasciava nel seggiolone con tre biberon di latte per la giornata. Ma la sera tornava a casa e il latte era sparso per terra, mescolato alla pipì e alla popò del piccolo in lacrime, caduto per terra.
 
Mise al mondo pure un bimba, poi fuggì. Piena di ecchimosi e ferite, nell’anima e nel corpo. Emigrò in Italia, faceva la fame. Andò in una città del Centro: altre ferite, altre emarginazioni, altri soprusi. Salì un po’ più al Nord, trovò rifugio in una casa di accoglienza di certe suorine che vivevano di carità ricevuta e di carità data. Pure lei s’inserì in quella pratica cristianissima. Era ortodossa, ma non aveva difficoltà a dirsi cattolica, «Gesù è lo stesso, Dio è lo stesso, perché dividersi?».
 
Trovò un lavoretto, poi un secondo, un terzo, un quarto. Trovò mia zia, un’anziana vedova, sorridente e generosa. Una nuova madre. Si sentì subito una nuova figlia. L’assisteva la notte, la portava a messa e a far la spesa, la consigliava e si faceva consigliare. Studiò di nuovo, lei che era maestra, e diventò infermiera. Una rinascita.
 
Ebbe persino la forza di operare un ricongiungimento familiare, non solo coi due figli ormai grandicelli, ma addirittura col marito. Potenza dell’amore coniugale, riuscì a strapparlo ad un devastante alcolismo e indurlo a cercare e trovare un lavoro da muratore. Appena rimesso in piedi, morì d’infarto. «Ma l’ho spedito in cielo pulito pulito, senza una macchia, com’era nato».
Pietro Parmense 

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Ultimo aggiornamento Domenica 25 Aprile 2010 14:59
 


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